Nel giugno 2013, all'età di 49 anni, mi viene diagnosticato un linfoma non Hodking.
Ho, ufficialmente, un tumore. Ero cresciuto pronunciando malvolentieri la parola tumore, una sorta di remora psicologica, chissà, come se evitare di nominarlo avesse potuto tenerlo lontano. E invece mi trovo che ce l'ho anch'io.
Sono convinto che all'inizio le reazioni siano le stesse per tutte le persone; credo poco ai superuomini o alle superdonne che affrontano “la bestia” con la sicurezza che “tanto sono forte, vinco io di sicuro”.
Nel mio caso, il periodo di notti insonni, passate a piangere, con pensieri che si accavallano e paure che ti tormentano, con la stessa, inutile e ripetitiva domanda “perchè proprio a me?”, è stato piuttosto lungo.
Quando la notte non piangevo, e nonostante tutti i Dottori mi sconsigliassero ricerche mediche su internet, la disperazione mi teneva compagnia, fino all'alba, davanti a un monitor, alla vana ricerca di una formula magica per guarire in fretta e, possibilmente, senza sofferenze.
Devo aggiungere che il fatto di aver avuto, all'epoca, due figli, uno di diciotto mesi e uno di sette anni, rendeva la situazione ancora più drammatica.
Proprio i figli sono stati, e sono tuttora, la mia forza e la mia debolezza. La forza perché la loro presenza costituisce garanzia che non potrei rifiutare nessuna cura suggerita dai medici, la debolezza perché è terribile immaginare di lasciarli senza un padre, piccoli e indifesi.
Ma ogniqualvolta la mia forza non sembrava sufficiente, quando nella determinazione si formavano pericolose crepe, ad evitare che le crepe diventassero burroni, è sempre intervenuta la compagna di sempre, Cristiana, insieme da 25 anni, una vita, e solo vaghe e fumose promesse di matrimonio. Una coppia di fatto, come si definiscono oggi, con due figli avuti quando alcuni dei miei coetanei era già nonnI. Con lei non mi sono sentito mai solo, neanche un minuto.
Comunque, inizio subito con la chemioterapia, prima a Portoferraio, poi l'anno successivo il secondo ciclo a Genova dove, oltre la chemio, vengo sottoposto all'autotrapianto di cellule staminali, uscendone fisicamente distrutto. Analisi, pulizie di cvc, trasfusioni tutto all'Ospedale di Portoferraio, al quarto piano, in un piccolo reparto dove senti di non essere solo un numero e dove spesso arrivi con le tue angosce ma esci con un sorriso.
Alla fine di ogni terapia sostenuta, però, gli esami di rito, Tac, Pet Tac producevano sempre il medesimo responso: “Situazione invariata”; per consolarmi cercavo di cogliere l'aspetto positivo, non stavo peggiorando. Come si dice, piuttosto che niente, meglio piuttosto.
Agli inizi del 2016, quasi inaspettatamente, dopo un mese di radioterapia viene riscontrata finalmente una consistente riduzione dei linfomi; devo interrompere però le cure per il sopraggiungere di una polmonite, purtroppo il mio sistema immunitario non è non sarà più lo stesso; comunque mi pare di intravedere, dopo anni, una luce in fondo al tunnel.
Non è facile descrivere come ho vissuto e come sto vivendo la malattia, tra delusioni e speranze, illusioni e paure, rientrando al lavoro quando in grado, tra un ricovero, una visita, un esame e una terapia.
Il mio paese, Porto Azzurro, è stato meraviglioso; amici, parenti, vicini di casa, tutti hanno manifestato il loro affetto e creato una incredibile rete di protezione e di assistenza nei confronti dei miei figli durante le mie forzate assenze.
Nel frattempo mi sono finalmente sposato; “un matrimonio riparatore“ ha amichevolmente ironizzato il Sindaco durante la cerimonia.
Ma la cosa più importante è che sto vedendo i miei figli crescere; è vero, sono ancora piccoli, ma io non ho certo intenzione di fermarmi qui. Perché io lo so che dopo la notte arriva sempre il giorno.
Enrico Tonietti